Farewell?

 

Lega Britannico-Irlandese di FantaQuidditch
di P. Noreal, pagina 5

Gran Tremio di ottobre
di H. Darcy, pagina 6

Hogwarts

  La mia musa è una grande v…eela
di M. McReady, pagina 2

Crisi di mezz'età
di V. Price, pagina 3

Cosa bolle in pentola?
di T. Taylor
, pagina 4

Cronaca

Dove un Lumos non basta
di V. Rushton, pagina 7

I misteri irrisolti si moltiplicano mentre un’altra anima vola in cielo
di I. Hevenge, pagina 8

Il male in un batter d'ali – sequel

di M. McReady, pagina 9

Forse ci ho messo un po’ di più degli altri, ma ho capito come funzionano le cose da questa parte del giornale: la Burton potrà finalmente dire che ho messo in moto il cervellino, anche se rimango sempre e comunque una lumachina bavosa. È normale che ognuno dia la propria interpretazione ad un articolo, editoriale o trafiletto, che sia guidato da pregiudizi o meno, e molte volte succede che questa interpretazione non corrisponda a ciò che l’autore voleva comunicare. Ma non importa, in fin dei conti: la cosa che conta è parlarne. Uno scambio di opinioni può sempre portare a qualcosa di utile per entrambi le parti, come si sforza di farci capire Thofteen, ora più che mai. Ci sono stati giorni in cui preferivo non parlare: non tanto perché non avessi nulla da dire, ma perché non avevo idea di come farlo. Non so quante persone, in questo periodo, si prendano la briga di leggere qualcosa che potrebbe non interessare quanto gli articoli di Hogwarts e di cronaca scritti dagli altri scribacchini, ma io voglio essere sincera comunque. Parlare non è mai stato il mio forte: chi mi conosce sa quante volte mi sono trovata in difficoltà nell’esprimere quello che provavo e non mi sono smentita nemmeno dopo Halloween. Poi, però, è spuntato dal nulla il professore di Babbanologia che, spero mi perdonerà se mi ritrovo a condividere quanto ha raccontato a me, mi ha reso partecipe di un fatto che lo riguarda direttamente. Un suo amico, tempo fa, finì in Infermeria mentre entrambi erano intenti ad organizzare uno scherzo. Il professore non gli parlò per una settimana intera, il che è davvero difficile da credere se si conosce almeno un pochino il suo essere logorroico – parole sue, giuro – ma gli scrisse. Ora, non so quanto questa storia sia vera o se se la sia inventata di sana pianta per tentare di sbloccarmi, ma il messaggio credo che sia uno soltanto: in un modo o nell’altro, bisogna esprimere ciò che si pensa o che si prova, se non si vuol rischiare di implodere. Per alcuni è più semplice parlare a voce, per altri risulta più facile scrivere: ma tenersi tutto dentro e lasciare che siano le circostanze a travolgerci non porta mai a nulla di buono. Il mio non è un consiglio a fare chissà quanti incontri per condividere i nostri problemi ed improvvisarci magipsicologi a turno, no: è solo una riflessione che spero qualcuno si ritrovi a fare, quando ne ha il tempo o la voglia. Dire a qualcuno quanto ne sentiate la mancanza – anche se potrebbe non essere pienamente consapevole delle vostre parole – persino delle sue arrabbiature o delle brutte litigate che vi ritrovate a fare sempre più spesso, può essere più difficile del previsto; fargli capire che gli siete accanto tartassandolo di notizie sportive anche di terza mano o mostrargli qualsiasi cosa che possa provocargli una reazione, può essere duro quanto la testa di Merida che si impunta a non voler oltrepassare quella soglia; sforzarsi di sorridere e mostrarsi tranquilli e fiduciosi quando in realtà si ha una paura matta di rivedere nei suoi occhi il timore della prima volta, può essere distruttivo. Ma tutto diventa più semplice quando anche la più flebile speranza si insinua nella mente: un gesto, una lacrima, uno sguardo. Io ho fatto la mia riflessione ed ho deciso di esprimere quello che provo, ma non sono i nostri lettori i primi a leggerne il contenuto. Ora resta a voi decidere cosa fare: se fermarvi un attimo a fare questa riflessione o meno.

 

Controeditoriale

di Reginald Weetmore

Conosciamo tutti, ormai, le famose fiabe di Beda il Bardo. Le infinite chiavi di lettura che si celano dietro le rune su pergamena di un vecchio aedo inglese, infatti, hanno accompagnato milioni di giovani maghi nella loro infanzia. Cosa, invece, sconosciuta ai più, è la stretta analogia fra i racconti degli antichi cantori e le leggende tramandate di generazione in generazione nei piccoli borghi scozzesi. Una mia cara amica, Ursula Hinchinghook, ha cercato appositamente di soddisfare la mia richiesta di recuperare una vecchia narrazione, mettendo per iscritto ciò che ricorda essere il racconto dei nostri avi. Vi era una storia, a quei tempi, che spiega come credenze escatologiche rispettino le leggende più basilari della nostra tradizione. Ad esempio, questa che la nostra amica Ursula ci riporta vuol cercare una spiegazione tutt'altro che logica al riverbero di luce che notiamo fissando il sole. Ma non è certo di questo, che vorrei parlare. Spesso ai giovani maghi sfugge il percorso che abbia portato all'ex-abrupto finale, alla soluzione ultima. Vi chiedo, difatti, di soffermarvi più su ciò che avviene all'interno della leggenda, tirando sì il famoso sospiro di sollievo quando sopraggiunge l'ultima frase, ma come fosse pneuma vitale della risoluzione.

"Tempo fa, come ora, luce e oscurità erano in conflitto. Un conflitto atavico e interminabile. Durante le notti senza luna, il male era perennemente in agguato; i custodi della luce, maghi senza volto né nome, vagavano in ogni luogo con delle torce inestinguibili per contrastare il potere oscuro e guidare i cuori incerti. Indossavano dei mantelli che li celavano alla vista, perché nessuno potesse riconoscere i volti di grandi e piccoli maghi, fratelli e compagni di vita, umili cittadini e impavidi fanciulli. Una notte di luna nera, durante una battaglia, uno dei custodi della luce perse il suo mantello. L'alba era alle porte, quando il mago senza mantello venne allontanato dai compagni. I buoni batterono in ritirata, per non tradire il loro ideale di difendere al meglio l'umanità. La conoscenza avrebbe creato il panico, e il panico avrebbe portato la guerra su un binario che conduceva alla morte. Il mago senza mantello rimase per giorni e notti in disparte, cercando un modo per riparare al danno subito, ma senza successo. All'alba del secondo giorno, il suo allocco lo raggiunse sotto una pianta di alloro, consegnandogli un mantello rattoppato e interamente trapuntato: "Lo abbiamo fatto per te, mettendo insieme parti dei nostri mantelli", dissero gli altri maghi, mostrando le loro cappe. Su tutte c'era uno strappo, in corrispondenza del cuore. Da quell'alba, ogni volta che uscivano a custodire la luce, i passanti potevano notare dei riflessi che per qualche secondo li rendevano quasi ciechi. La luce delle lanterne che filtrava attraverso i fori, ma nessuno lo sapeva."

La Redazione

Caporedattore: Hilary Darcy.
Vice Caporedattore: Philip Noreal.
Articolisti:  H. Darcy, A. Harris, I. Hevenge, D. Leroy, M. McReady, P. Noreal, T. O'Flynn, V. Price, H. Ross, V. Rushton, T. Taylor
Inviati Speciali: Reginald Weetmore
Fotografia: Eoghan Donegal.
Impaginazione: Gwendolyn Hywel.