Forse ci ho messo un po’ di più degli altri, ma ho capito come funzionano le cose da questa parte del giornale: la Burton potrà finalmente dire che ho messo in moto il cervellino, anche se rimango sempre e comunque una lumachina bavosa. È normale che ognuno dia la propria interpretazione ad un articolo, editoriale o trafiletto, che sia guidato da pregiudizi o meno, e molte volte succede che questa interpretazione non corrisponda a ciò l’autore voleva comunicare. Ma non importa, in fin dei conti: la cosa che conta è parlarne. Uno scambio di opinioni può sempre portare a qualcosa di utile per entrambi le parti, come si sforza di farci capire Thofteen, ora più che mai. Ci sono stati giorni in cui preferivo non parlare: non tanto perché non avessi nulla da dire, ma perché non avevo idea di come farlo. Non so quante persone, in questo periodo, si prendano la briga di leggere qualcosa che potrebbe non interessare quanto gli articoli di Hogwarts e di cronaca scritti dagli altri scribacchini, ma io voglio essere sincera comunque. Parlare non è mai stato il mio forte: chi mi conosce sa quante volte mi sono trovata in difficoltà nell’esprimere quello che provavo e non mi sono smentita nemmeno dopo Halloween. Poi, però, è spuntato dal nulla il professore di Babbanologia che, spero mi perdonerà se mi ritrovo a condividere quanto ha raccontato a me, mi ha reso partecipe di un fatto che lo riguarda direttamente. Un suo amico, tempo fa, finì in Infermeria mentre entrambi erano intenti ad organizzare uno scherzo. Il professore non gli parlò per una settimana intera, il che è davvero difficile da credere se si conosce almeno un pochino il suo essere logorroico – parole sue, giuro – ma gli scrisse. Ora, non so quanto questa storia sia vera o se se la sia inventata di sana pianta per tentare di sbloccarmi, ma il messaggio credo che sia uno soltanto: in un modo o nell’altro, bisogna esprimere ciò che si pensa o che si prova, se non si vuol rischiare di implodere. Per alcuni è più semplice parlare a voce, per altri risulta più facile scrivere: ma tenersi tutto dentro e lasciare che siano le circostanze a travolgerci non porta mai a nulla di buono. Il mio non è un consiglio a fare chissà quanti incontri per condividere i nostri problemi ed improvvisarci magipsicologi a turno, no: è solo una riflessione che spero qualcuno si ritrovi a fare, quando ne ha il tempo o la voglia. Dire a qualcuno quanto ne sentiate la mancanza – anche se potrebbe non essere pienamente consapevole delle vostre parole – persino delle sue arrabbiature o delle brutte litigate che vi ritrovate a fare sempre più spesso, può essere più difficile del previsto; fargli capire che gli siete accanto tartassandolo di notizie sportive anche di terza mano o mostrargli qualsiasi cosa che possa provocargli una reazione, può essere duro quanto la testa di Merida che si impunta a non voler oltrepassare quella soglia; sforzarsi di sorridere e mostrarsi tranquilli e fiduciosi quando in realtà si ha una paura matta di rivedere nei suoi occhi il timore della prima volta, può essere distruttivo. Ma tutto diventa più semplice quando anche la più flebile speranza si insinua nella mente: un gesto, una lacrima, uno sguardo. Io ho fatto la mia riflessione ed ho deciso di esprimere quello che provo, ma non sono i nostri lettori i primi a leggerne il contenuto. Ora resta a voi decidere cosa fare: se fermarvi un attimo a fare questa riflessione o meno.